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Cristiani in Nagorno Karabakh, l’Azerbaijan prova a riscrivere la storia. L’Armenia non ci sta

Cristianesimo in Azerbaigian: storia e modernità | Un momento della Conferenza "Cristianesimo in Azerbaigian: storia e modernità", PUG, 10 aprile 2025 | CC

Da diversi anni, l’Azerbaijan rivendica una Chiesa cristiana dell’Albania Caucasica presente in territorio azero ancora prima della Chiesa apostolica armena. Un convegno alla Gregoriana del 10 aprile cerca di giustificare questa storia

È una guerra che l’Azerbaijan combatte prima di tutto sul piano culturale, quella che ha visto Baku riprendere il controllo dei territori del Nagorno Karabakh, che gli armeni chiamano con il suo antico nome di Artsakh. E, di fronte alle accuse di “genocidio culturale” nella regione, con vasta documentazione di chiese cristiane armene completamente scomparse, l’Azerbaijan risponde con una storia diversa: quella della presenza di una Chiesa cattolica dell’Albania caucasica, precedente alla Chiesa Apostolica Armena collegata alla prima nazione che si è proclamata cristiana, e dove la storia si legge in millenni, e non in secoli.

Questa “contro storia” è stata promossa dall’Azerbaijan anche in una conferenza che si è tenuta il 10 aprile alla Pontificia Università Gregoriana, con un intervento anche del Cardinale Claudio Gugerotti, prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali – attualmente decaduto perché si è in sede vacante – che ha tenuto un discorso in cui sposava fino in fondo la narrativa azera.

“L’Azerbaijan – ha detto Gugerotti – crocevia di popoli e fedi, è una terra antica su cui territorio si custodiva una tradizione cristiana che affonda le sue radici nell’epoca dell’Albania caucasica.
I monumenti sacri, le chiese, i manoscritti e le memorie del tutto rappresentano non solo testimonianze artistiche, ma espressioni tangibili dell’anima di un popolo che ha saputo onorare Dio nella varietà e nelle forme e nella fedeltà della propria fede”.

Il cardinale descriveva la conferenza come una “opportunità eminente di riflessione”, ricordava le visite in Azerbaijan di San Giovanni Paolo II nel 2002 e di Papa Francesco nel 2016, e auspicava “che i frutti di questo incontro non si limitino all’ambito accademico, ma si producano in testimonianza concreta di pace, giustizia e verità, che in un impegno veramente scientifico, certo, costituiscono a dissipare il livore e la divisione. Con tale animo e nella fiducia al futuro segnato dalla concordia, vi auguro proficuo e ispirato svolgimento dei lavori”.

Così, dopo l’articolo dell’Osservatore Romano del 24 luglio 2024 in cui si parlava chiaramente dell’Albania Caucasica, anche un cardinale ha dato adito alla riscrittura della storia, creando non poco sconcerto nella comunità armena, che tra l’altro il 15 aprile ha ricordato il Centodecimo anniversario del Metz Yegern, il grande male, ovvero il genocidio armeno. 

Che però si andasse in questa direzione era prevedibile. Nel 2022, dopo che il conflitto in Nagorno Karabakh si era concluso con un cessate il fuoco doloroso per l’Armenia, nell’ultimo atto di quella che sembra una guerra combattuta prima di tutto sul piano culturale, Anar Karimov, ministro della Cultura dell’Azerbaijan, ha annunciato la creazione di un gruppo di lavoro per le aree riconquistate del Nagorno-Karabakh per “rimuovere le tracce fittizie di armeni su siti religiosi albaniani”. Dichiarazione che rilanciano la preoccupazione degli armeni per il patrimonio cristiano in Artsakh, il nome storico armeno del Nagorno Karabakh.

Per comprendere le dichiarazioni del ministro della cultura si deve fare un passo indietro. Il territorio del Nagorno Karabakh era stato assegnato all’Azerbaijan dall’Unione Sovietica, e si era poi proclamato indipendente al momento della dissoluzione dell’URSS, proclamando la sua identità armena. Nel corso del secolo scorso, è stata più volte denunciata la sistematica distruzione di patrimonio cristiano storico nel territorio, definito da alcuni studiosi come un genocidio culturale, come è stata denunciata anche la volontà azera di riscrivere la storia etnica del territorio esaltandone le radici albaniano-caucasiche.

Da parte azera, si lamenta invece che l’Armenia reclami una presenza che è solo successiva alla presenza degli albaniani, e viene denunciata la distruzione di moschee durante il periodo in cui il Nagorno Karabakh aveva mantenuto una autonomia, sebbene mai riconosciuto come Stato nemmeno dall’Armenia.

C’è un genocidio culturale in atto in Artsakh? Da parte azerbaijana, si nega la distruzione del patrimonio cristiano, si lamenta, piuttosto, la distruzione di patrimonio musulmano nel Nagorno Karabakh da quando gli armeni ne hanno preso il controllo, e quindi si è passati al contrattacco, delineando la storia della Chiesa cattolica albaniana.

La conferenza del 10 aprile era intitolata Cristianesimo in Azerbaigian: storia e modernità. Dedicata al patrimonio dell’Albania caucasica, la conferenza era stata organizzata dal Baku International Multiculturalism Center, dall’A.A. Bakikhanov Institute of History and Etnology dell’Accademia Nazionale delle Scienze dell’Azerbaigian, dall’Ambasciata della Repubblica di Azerbaigian presso la Santa Sede e dalla Comunità religiosa cristiana Alban-Udi.

Non è stata ovviamente coinvolta alcuna organizzazione di studi armeni, mentre – ha denunciato il team di Monitoraggio del Patrimonio Culturale dell’Artsakh – “sono stati riuniti e reclutati decine di specialisti provenienti da diversi paesi (Turchia, Kazakistan, Uzbekistan, Corea del Sud, Russia, Polonia, Italia, Georgia, Germania, Francia, Canada, Stati Uniti, Lituania) con l’obiettivo di escludere la storia armena, la cultura armena e la presenza degli Armeni nel territorio dell’Azerbaigian, quindi, in particolare quei monumenti armeni, ricoperti da centinaia di iscrizioni armene, vengono presentati come albanesi. Si tratta di Amaras, Ganadzasar, Dadivank, ecc.
Per noi è anche incomprensibile che abbiano partecipato alcuni noti ricercatori del settore, visto che a questa Conferenza non ha partecipato nessun ricercatore armeno e non è stata pronunciata una sola parola sugli Armeni”.

La conferenza è parte di una marcia di avvicinamento dell’Azerbaijan alla Santa Sede. La fondazione legata al presidente Aliyev, da ormai dieci anni, finanzia restauri in Vaticano, mentre Baku ha voluto stabilire una ambasciata residenziale presso la Santa Sede e, dal 2 aprile, Vatican News si è persino arricchita dell’offerta di una sezione in lingua azerbaijana. 

Ovvio che le comunità armene, alla notizia della conferenza, si siano ribellate. Il Consiglio per la Comunità Armena di Roma si è unita “allo sgomento e rabbia di tutti gli Armeni” per la conferenza in cui “ancora una volta gli oratori hanno ripetuto la falsa teoria sulla Chiesa Cristiana Albana che sarebbe stata spodestata da quella Armena; teoria infondata e ridicola che non ha alcun cultore al di fuori dell’Azerbaigian e che è stata riproposta per giustificare l’occupazione del Nagorno-Karabakh (Artsakh) cancellando secoli di civiltà e storia armena nella regione, dopo aver cacciato da quei territori, sotto la minaccia della pulizia etnica, più di 120 mila Armeni, che oggi, dopo aver perso tutto, persino le tombe dei loro cari, si trovano rifugiati in Armenia”.

Durante la conferenza, è intervenuto anche l’analista politico Fuad Akhundov, che ha accusato gli armeni di distruggere i monumenti religiosi azeri, descrivendo queste azioni come “una politica anticristiana volta a distruggere la vera storia della regione”.

“Il Consiglio per la comunità armena di Roma – si legge nella comunicazione – ritiene inaccettabile che istituzioni pontificie, ancorché in buona fede, ospitino tali eventi caratterizzati da armenofobia, razzismo, intolleranza e basati su teorie prive di qualsiasi valore storico, religioso e scientifico e offensive nei confronti di un popolo che ha versato il proprio sangue per non rinnegare la propria fede Cristiana e che si sta accingendo a commemorare il prossimo 24 aprile il 110° anniversario del Genocidio del 1915 dove persero la vita più di un milione e mezzo di Cristiani Armeni”.

Il Patriarcato Armeno di Divani, in un comunicato, è arrivato a dire che “il Vaticano si è comportato irresponsabilmente, permettendo alla sua piattaforma accademica di essere usata per propagare una narrativa ben conosciuta e inventata – che cerca di cancellare la presenza storica della Chiesa Apostolica Armena nel Caucaso del Sud dalla memoria intellettuale degli studiosi”, e a denunciare una narrativa che punta a “tinteggiare tratti di una statualità moderna in un passato che non esiste”.

Gli azerbaijani sostengono che la storia cristiana della regione è legata a quell’Albania caucasica, l’Antica Illiria, e fanno risalire l’evangelizzazione della zona addirittura al periodo apostolico, sottolineando come il cristianesimo fu adottato come religione ufficiale dell’Albania caucasica nel 313, e che avrebbe fatto sviluppare una architettura cristiana dal IV al VII secolo. Anzi, pongono il cristianesimo dell’Albania caucasica come un modello perché si sarebbe integrato con gli altri sistemi religiosi della regione, creando uno stile architettonico peculiare. Poi c’è uno stop per via della conquista del territorio azero da parte del Califfato nel IX secolo, e poi una nuova fioritura di architettura cristiana fino al XII secolo, quando poi ci sarebbe stata una nuova fioritura di edifici religiosi. E vengono citati i complessi monastici di Khudavang (1214, situato nell’attuale distretto di Kelbajar in Azerbaigian), Ganjasar (1216-1238, distretto di Terter in Azerbaigian), Khatiravag (1204, distretto di Kelbajar) e altri, divennero centri dove fiorirono le costruzioni religiose.

Ma è davvero questa la storia? In realtà da quando il Nagorno Karabakh è stato assegnato alla gestione dell’Azerbaijan, musulmano, negli Anni Venti del secolo scorso, gli studiosi hanno dettagliato quello che hanno ritenuto essere una sorta di “genocidio culturale”, ovvero la scomparsa dei “khachkar” (le tipiche croci armene), persino di chiese ed edifici religiosi della antica popolazione cristiana. Quando negli Anni Novanta del secolo scorso l’etnia armena ha preso il controllo della regione proclamandola indipendente (ma lo Stato non è mai stato riconosciuto dall’Armenia stessa) si è verificato, secondo gli azerbaijani, l’opposto, ovvero che l’eredità musulmana della regione è stata estirpata. Ora, però, dopo la guerra del 2020 e la cosiddetta “operazione antiterrorismo” di settembre 2023, il Nagorno Karabakh è sotto controllo azerbaijano. Centinaia di migliaia di armeni hanno lasciato le loro case, i loro terreni, e la custodia dei luoghi santi. L’allarme per la perdita del patrimonio cristiano è risuonato di nuovo nella regione.

00 edifici – chiese, monasteri, tombe – alcuni risalenti addirittura all’XI secolo. Alcuni di questi siti religiosi sono unici, scolpiti con cavalieri armati che risalgono all’Impero Mongolo del XIII e XIV secolo.

Tra questi, c’è il monastero Dadivank, già passato sotto il controllo armeno nel 2020, che si dice sia stata fondata da San Dadi in persona. Ma anche la chiesa armena di San Gregorio a Baku. A dire il vero, questa chiesa figura nel registro dei monumenti religiosi dell’Azerbaijan, ma è attualmente chiusa al pubblico.

Ma è considerata a rischio anche la cattedrale del Santo Salvatore a Shusha, tra l’altro colpita dai razzi nel conflitto del 2020. Gli azerbaijani considerano Shusha come la loro capitale culturale, la cattedrale cristiana è stata restaurata, ma non si trova più la croce sulla sua sommità.

Il lavoro storico dell’Azerbaijan è impressionante. Vengono fuori nuovi documenti a testimoniare non solo una antica presenza musulmana nella regione dominata da persone della più antica nazione cristiana, ma viene definita anche la presenza di una Chiesa di tipo bizantino, la Chiesa Greco Albaniana, a testimoniare che no, gli armeni non erano i soli e che dunque non sono i padroni dei territori.

Non sono dettagli, perché ricostruire la storia significa anche ricostruire una legittimità. Gli armeni lamentano, in effetti, che le tracce del loro passato siano state sistematicamente cancellate a partire dagli Anni Venti, in quello che loro definiscono un “genocidio culturale”. Mentre la fuga a centinaia di migliaia dopo il raid di autodefinito “anti terrorismo” nel corridoio di Lachin bloccato da mesi deriva dalla paura di una nuova pulizia etnica.

L’Università di Cornell ha stabilito il Caucasus Heritage Watch, che usa immagini satellitari ad alta risoluzione per documentare il destino dei siti culturali armeni in Karabakh e nella exclave azerbaijana di Nakchivan, che si trova vicino al confine con l’Iran.

Proprio in questa exclave, le immagini hanno mostrato – spiega il team dell’osservatorio – “la completa distruzione di 108 monasteri, chiese e cimiteri medievali e di prima modernità, avvenuta tra il 1997 e il 2011. Si tratta del 98 per cento dei siti culturali armeni che siamo stati in grado di localizzare”.

Julfa, conosciuta prima come Jugha, in dieci anni c’è stato un processo di metodica erosione, sebbene questo dato sia impossibile da verificare sul territorio perché l’accesso ai siti è strettamente controllato dalle autorità azerbaijane.  Secondo il Caucasus Heritage Watch, ci possono essere altri 200-300 siti culturali armeni gravemente danneggiati.

Questo articolo è stato pubblicato su ACI Stampa e ripreso dal team di EWTN Italia

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Andrea Gagliarducci

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