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Quando l’ateo Sartre scrisse del Natale

Adorazione dei Pastori (1529-1530), Correggio, Gemäldegalerie di Dresda | Adorazione dei Pastori (1529-1530), Correggio, Gemäldegalerie di Dresda | Credit pd

Nel racconto “Bariona o il figlio del tuono”, una delle descrizioni più umane e divine della Maternità della Vergine Maria

Ciò che bisognerebbe dipingere sul viso di Maria è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano. Poiché il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne e il frutto del suo ventre. L’ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. (…) Nessun bambino è stato più crudelmente e più rapidamente strappato a sua madre, poiché egli è Dio ed oltre tutto ciò che lei può immaginare. Ed è una dura prova per una madre aver vergogna di sé e della sua condizione umana davanti a suo figlio. Ma penso che ci sono anche altri momenti, rapidi e difficili, in cui sente nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio. Lo guarda e pensa: questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo, che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive”.

La citazione non poteva essere sintetizzata, abbreviata o ridimensionata. Si tratta del grande scrittore francese Jean Paul Sartre.Ciò che colpisce di più di queste parole è la loro tenerezza. Ma non solo: ci troviamo di fronte a una descrizione del Natale da parte di un ateo. Non è poca cosa, se ci pensiamo. Possibile che un uomo così tanto lontano dalla Chiesa e dalla fede abbia creato una così sublime pagina di poesia che ha tutto il sembiante di una pagina quasi mistica? Eppure queste righe fanno parte addirittura di un racconto-testo teatrale scritto dal pensatore francese in un momento particolare della sua vita. 

Stiamo parlando di “Bariona, ou le Fils du tonnerre” (“Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti”) del noto scrittore del ‘900. E non si può nascondere la meraviglia nello scorrere le pagine di questo testo così densamente spirituale. Ci lascia quasi interdetti. 

Il testo nasce in una ben precisa circostanza della sua biografia: Jean Paul Sartreera prigioniero dei tedeschi a Treviri, nella Seconda guerra mondiale. Nel giugno 1940, l’autore francese – a causa della disfatta dell’esercito francese – era stato fatto prigioniero dai tedeschi. In agosto venne poi trasferito in Germania, nel campo di prigionia di Treviri, dove rimase fino all’aprile del 1941. L’esperienza della solidarietà tra prigionieri lo toglierà dalla sua solitudine, dal disprezzo del mondo. Vivrà in quell’esperienza, la luce nelle tenebre. E sarà proprio quella piccola scintilla a indurlo a scrivere “Bariona”. In quel campo di priogionia, conosce alcuni sacerdoti, tra cui l’abate Marius Perrin, con cui strinse amicizia. Questo, il contesto in cui nasce il testo che vedrà la sua prima pubblicazione solo nel 1962, in 500 copie fuori commercio. 

Pagine che parlano del Natale, grazie a una storia affascinante, d'”invenzione”. Nelle sue linee essenziali il lavoro mette in scena la storia di un capovillaggio ebreo, Bariona, che, di fronte all’ordine del procuratore romano di aumentare le imposte, accetta il pagamento chiedendo però agli abitanti del luogo di non fare più figli. Roma potrà esercitare il suo potere solo sul deserto. Nel suo imperativo suicida Bariona non sa ancora che sua moglie Sara è in attesa di un figlio. La scoperta, drammatica, non lo fa desistere dalla scelta, scelta a cui la consorte si oppone. È in questo quadro che Bariona viene informato dai pastori della nascita del Messia in una stalla di Betlemme; una notizia, questa, che ai suoi occhi ha il sapore di una grande illusione, di un inganno. Il capo ebreo medita in cuor suo di uccidere il bambino, di sopprimere questa vuota speranza. Giunto a Betlemme vi trova Sara e, presso la capanna, una folla inginocchiata, commossa e felice. Sorpreso, desiste dal suo proposito e, alla notizia che Erode vuol ammazzare Gesù, raduna i suoi, raccoglie le armi, e, consapevole di andare a morire, va incontro agli sgherri del re.

Moeller, scrittore e sacerdote del secolo scorso, nel suo “Letteratura moderna e Cristianesimo” (1966), accenna a “Bariona o il figlio del tuono”, di sfuggita: “In un campo di prigionia ha composto una laude natalizia da recitare in una baracca”. Nello stesso saggio, Moeller, analizza l’ateismo di Sartre, arrivando alla conclusione che il filosofo francese non aveva fatto altro che “rifiutare” il suo destino di “figlio di Dio”. Aveva rifiutato la religione, la sacralità, per poter dedicare la sua intera esistenza alla Letteratura e alla Filosofia. Aveva sì “rifiutato” il sacro e la religione, eppure in queste pagine si comprende quanta ricerca dell’Infinito ci fosse nel suo animo, sempre inquieto davanti alle tenebre del mondo.

In questa ricerca, allora, “Bariona” rappresentò un segmento del suo passato in cui riuscì persino a provare la positività dell’Esistenza (forse, questo testo, rappresenta l’unica esperienza “positiva” letteraria e umana nella vita dello scrittore). E per descrivere tutto ciò focalizza la sua attenzione sull’evento della Nascita di Gesù Bambino: pone la “telecamera” del racconto soprattutto sul viso della Vergine Maria. E’ un sublime incontro che si perpetua ancora oggi e che vivrà per sempre nelle pagine della Letteratura mondiale. 

Questo articolo è stato tradotto e adattato da ACI Prensa  

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Antonio Tarallo

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